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E in questo post ti spiego perché!

I fenomeni, da soli, non bastano

11 Aprile 2014 | di Arduino Mancini (S)management delle Risorse Umane

Post aggiornato il 22 luglio 2020

 

Sembra proprio che anche in Europa stiamo arrivando a mettere in discussione la convinzione che il destino delle imprese dipenda da poche, i cosiddetti talenti; a cominciare la riflessione sono state le imprese americane, molte delle quali si stanno ponendo una domanda:

ha senso affidare la competitività dell’azienda
solo a una parte delle persone in organico?

Insomma, più di un guru comincia a dire che non si può pensare di generare utili con la desiderata regolarità puntando solo su persone che, secondo le circostanze, andiamo a definire come outperformer, high potential, talenti o altro ancora.

Milioni di tonnellate di carta sono stampati a proposito di tecniche e metodi per individuare e trattenere i talenti, innumerevoli convegni sono organizzati sui temi correlati, blasonate società di consulenza hanno fatto fortuna (e continuano a farne) su un discutibile concetto: a decidere le sorti di un’impresa sono quel 10-15% di persone capaci di offrire prestazioni che vanno al di sopra delle attese.

In moltissime società nelle quali esiste una gestione del personale sufficientemente strutturata, la classificazione delle Risorse Umane è operata a grandi linee in questo modo:

  1. persone che occupano posizioni chiave e offrono prestazioni almeno soddisfacenti. Sono quelle che bisogna far di tutto per trattenere;
  2. poi ci sono le persone ad alto potenziale, che potranno un giorno confluire nella categoria 1, sulle quali conviene investire per ovvie ragioni;
  3. non possono poi mancare i cosiddetti B player, persone alle quali non sono riconosciuti particolari talenti. Sono le persone che ogni giorno creano le condizioni affinché la «macchina» funzioni e a fine giornata abbia compiuto la sua missione. Su queste persone gli investimenti sono limitati o, più spesso, nulli;
  4. per finire, qui troviamo le persone che potremmo incontrare sia nel punto 1 sia nel punto 3, ma delle quali l’organizzazione farebbe volentieri a meno; le ragioni possono essere le più diverse e possono andare dalle prestazioni non soddisfacenti alle divergenze strategiche, fino ai conflitti personali.

Oggi le imprese tendono a investire nelle persone che possiamo trovare nei punti 1 e 2, trascurando i B player (la sola espressione mi fa venire la pelle d’oca…).

Ha senso la classificazione che ho appena presentato?

Direi di sì, anche se non riesco a non pensare…

  • … ai manager che mantengono la loro posizione non per via della loro competenza ma in virtù del fatto che hanno costruito nel tempo eccellenti relazioni, o perché le oro prestazioni non sono adeguatamente valutate;
  • … ai tanti high potential che ho visto sciogliersi nel tempo come neve al sole;
  • … alle persone che, come manager o consulente, ho contribuito a sottrarre all’oblio per valorizzarne il contributo (a volte perfino in posizioni di vertice);
  • … alle persone spesso finite nella categoria sbagliata per valutazioni sommarie, per sentito dire o semplicemente perché conoscere meglio fatti e circostanze costa fatica.

Insomma, le imprese americane stanno pensando bene di cambiare registro e di investire sui dipendenti «di serie B» perché sono consapevoli del fatto che sono soprattutto costoro a mandare avanti la «baracca».

Tuttavia questa visione è limitativa perché la ricerca del talento come unico soggetto capace di far compiere all’impresa il salto di qualità ha una serie di implicazioni che possono avere effetti alquanto negativi.

Vediamoli brevemente insieme:

  • investire semplicemente nelle persone che ho classificato nei punti 1 e 2 significa accettare che il risultato aziendale dipenda da pochi. Una strategia, questa, che non ricordo abbia aiutato a conseguire risultati duraturi;
  • le persone finiscono per essere catalogate e un B player può restare tale per sempre, con il rischio di perdere per strada persone capaci di offrire un contributo superiore a quello che è loro richiesto;
  • impossibile che la strategia di investimento sul talento passi inosservata. Come pensi che possa essere accolta da chi sa che l’azienda non è interessata a investire sulla sua persona?

Già, è proprio questo il punto: limitarsi a investire sui talenti significa

comunicare all’80-90% della popolazione aziendale che un investimento su di loro non avrebbe ritorno e, nello stesso tempo, aspettarsi che facciano tutti i giorni il loro lavoro, con professionalità e motivazione.

Forse una favola per bambini sarebbe più credibile.

Sbaglio?

 

Trovi il post anche nel libro Palmiro e lo (s)management delle Risorse Umane – Tattiche di sopravvivenza aziendale.

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Commenti
Simone 28 Dicembre 2014 0:00

Spesso mi stupisco di quante anologie esistono tra una squadra di calcio e un’azienda. Dalla notte dei tempi senza un mediano che fa legna in mezzo al campo, il numero 10 combina poco. Ed è allo stesso tempo vero che il salto di qualità te lo fanno fare i fenomeni. Quelli veri…

    AM 2 Gennaio 2015 0:00

    Riflessione interessante. Tuttavia, è importante riflettere che senza la legna è davvero difficile fare fuoco.
    Grazie del commento e a presto leggerti.
    Arduino

ROSSANA CINQUANTA 1 Settembre 2015 0:00

motivazione, automotivazione..mi sembra un’ottima vignetta come spunto di discussione

AM 3 Settembre 2015 0:00

Già, vignetta che fa riflettere. E pensare che le imprese sono sempre determinatissime a ricercare il talento. Insomma, amano le scommesse!

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