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... e come combatterla!

Non è colpa mia! Ovvero, la cultura dell’alibi...

6 Febbraio 2015 | di Arduino Mancini Costruisci la tua resilienza - Tutta colpa tua

Post aggiornato il 20 aprile 2023

Quando non siamo riusciti a cogliere un obiettivo oppure, più in generale, la nostra prestazione non è stata all’altezza delle attese, può accadere che siamo portati ad accampare scuse, a cercare giustificazioni che attribuiscano l’insuccesso a forze o situazioni al di fuori del nostro controllo.

Il “non è colpa mia” diventa un mezzo per lasciare intatta l’autostima e precludere la strada a ogni analisi che ci permetta di migliorare in futuro.

Mi è stato segnalato questo video di Julio Velasco, fra i coach sportivi che hanno ottenuto più risultati nella storia della pallavolo, che parla qui della cultura dell’alibi a giovani universitari.

Guarda il video (o leggi il testo che ho trascritto di seguito, se preferisci), poi faremo insieme una breve riflessione.

 

 

Noi siamo diventati popolari perché abbiamo vinto molto e molte volte ci chiedono come si fa ad avere una mentalità vincente. Io dico una cosa banale:

una mentalità vincente si ottiene vincendo.

Vincendo in che senso?

Nel senso che molte volte si pensa che vincere sia battere gli avversari, soltanto. Ma vincere significa anche superare i propri limiti: questa è la prima vittoria che uno deve cercare. Anche quando uno è già maggiorenne e impara un nuovo sport e quando riesce a praticarlo, per esempio sciare, ottiene una soddisfazione come vincere una partita.

Vincere è anche uscire dalle difficoltà, questa è un’altra vittoria sia nella vita sia nello sport; e poi c’è la vittoria ed è quella sugli avversari.

Purtroppo noi viviamo, in questo momento, in una società dove si pretende di assimilare tutta la vita a un campionato, come se lo sport fosse adattabile a tutta la situazione della vita. Allora vi dicono o ci dicono: sii un campione se mangi la pasta tale, vinci nella vita se usi la macchina quell’altra.

Invece la vita non è un campionato.

Noi facciamo un mestiere particolare, difficile, perché a noi non basta fare le cose bene, noi dobbiamo farle meglio degli altri: se noi facciamo le cose per bene e poi perdiamo per una palla come è successo a Barcellona 17-16 all’ultimo set, noi abbiamo perso. Pochi si ricordano se abbiamo perso per molto o per poco. Ed è giusto così, lo sport è così.

Ma la vita non è così!

Non è che se uno fa un punto meno di un altro allora è un “perdente”, e a questo noi ci dobbiamo credere. Quello che invece serve allo sport, anche se tutti dicono l’importanza è l’aspetto educativo dello sport ma dopo c’è la paura di mettere l’agonismo nelle scuole, come se l’agonismo non ci fosse, come se ai bambini non dicessero: preparati per la vita perché la vita è molto dura; quindi, tu devi essere migliore e quindi studia fin da piccolo.

Lo sport serve a imparare a perdere, oltre che a vincere.

Serve a imparare a vincere nel senso che bisogna fare le cose bene, bisogna sacrificarsi, bisogna essere efficienti, bisogna dare importanza alle cose decisive, e anche a quelle meno importanti quando la posta in palio è molto alta. Ma serve anche a imparare a perdere. Chi fa sport sa che non si può vincere sempre. L’eccezione è vincere sempre.

La cosa normale è l’alternanza tra le vittorie e le sconfitte.

Io ho sempre detto che sono molto orgoglioso della nazionale che ha vinto due Mondiali, due Europei, ecc. ma sono altrettanto orgoglioso della squadra che ha perso l’Olimpiade di Barcellona. Per un motivo: perché ha saputo perdere. Quando noi abbiamo perso, non abbiamo detto: è colpa dell’arbitro, siamo sfortunati, la Federazione non ci ha appoggiato, è colpa di un giocatore o dell’allenatore o del dirigente. Abbiamo detto: l’avversario è stato più forte di noi, punto e basta.

Noi abbiamo costruito una mentalità combattendo
quella che noi chiamiamo “la cultura degli alibi”.

Che cos’è un alibi?

È spiegare che non riesco a fare una cosa non perché io non ci riesco ma per una cosa per la quale io non posso fare niente, non la posso modificare. Non è che non riesco a vincere perché non sono stato il più bravo, c’è sempre qualcosa di più grande che io non posso fare. Questi alibi noi li abbiamo combattuti in tutti i sensi e quindi quando ci è toccata una sconfitta molto dolorosa per noi, perché vincere era il sogno della nostra vita, non abbiamo detto niente.

Ci siamo preparati da quel giorno per vincere la volta successiva.

Adesso noi abbiamo il grande compito di andare all’Olimpiade di Atlanta (ndr: estate 1996) e tutti ci daranno per favoriti come è successo nel 1992. Ci hanno addirittura detto che eravamo il dream team, un’espressione creata dagli americani per il basket, per la squadra dei sogni di tutti gli americani. Io l’ho già detto molte volte: noi non siamo la squadra dei sogni, noi siamo una squadra che sogna. Sogna di vincere un’Olimpiade e faremo tutto per vincerla.

Se non ci riusciremo, non ci considereremo però dei “perdenti”.

Sapremo però che abbiamo fallito un obiettivo e aver fallito un obiettino non vuol dire che siamo nella merda della storia.

E questo è altrettanto valido soprattutto per i giovani: voi dovete cercare di vincere il più possibile ma non crediate a quelli che vi dicono che il mondo si divide tra vincenti e perdenti. Il mondo, secondo me, soprattutto si divide tra brave e cattive persone. Questa è la divisione più importante. Poi tra le cattive persone ci sono anche dei vincenti, purtroppo, e tra le brave persone ci sono purtroppo anche dei perdenti.

Grazie

Insomma, Velasco ci spiega che la vita è un’alternanza fra vittorie e sconfitte e che si può fallire un obiettivo senza necessariamente diventare un perdente; egli ci mette così nella condizione di affrontare l’insuccesso al riparo dalla cultura dell’alibi.

Perché la cultura dell’alibi rappresenta il più grosso ostacolo
al miglioramento delle nostre prestazioni.

Cosa ne pensi?

 

Due cose:

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