Ecco parole che ognuno di noi si è sentito dire almeno una volta nella vita: e che mi auguro abbiano provocato in te almeno un moto di ribellione.
Da dove nascono espressioni quali “Tu non devi pensare, devi solo obbedire”?
Quale obiettivo hanno?
Si può apprendere pessimismo? E il senso di impotenza?
Farò del mio meglio per rispondere alle domande in questo post.
Esiste la diffusa convinzione che il pessimismo sia un tratto del carattere, e che il senso di impotenza qualcosa che ci portiamo dietro dalla nascita.
È così che stanno le cose?
Non proprio: evidenze sperimentali suggeriscono che pessimismo e senso di impotenza possano essere appresi.
Come?
Prima di tutto, andiamo alla radice della parola pessimsmo e cerchiamo di darne una definizione condivisibile.
Le fonti consultabili in rete autorizzano a definire il pessimismo come un atteggiamento che tende a percepire i risvolti peggiori di una situazione, e a prevedere un esito negativo delle azioni tendenti a cambiarla; la persona pessimista sente di poter esercitare un controllo limitato o nullo sugli eventi e tende a pensare che una situazione che induce malessere o sofferenza possa durare per sempre.
In buona sostanza,
Ciò detto, la domanda principale diventaquesta: si può apprendere l’impotenza?
E un capo può fare in modo che i collaboratori apprendano l’impotenza?
Nel suo libro Imparare l’ottimismo Martin Seligman descrive uno dei primi esperimenti sull’impotenza appresa, che egli stesso ha condotto nel 1964-65 con Steven Maier, al tempo anche lui studente alla University of Pennsylvania.
L’esperimento impiega dei cani e i giovani ricercatori devono decidere se sottoporre o no gli animali a scosse elettriche che possono risultare dolorose; dopo lunghi ripensamenti Seligman e Maier decidono di procedere (rimando alla lettura del libro per le interessanti argomentazioni sulla decisione di procedere).
Sono creati tre gruppi di cani:
Al termine di questa prima fase dell’esperimento i cani sono trasferiti in un box con due comparti; nel primo comparto viene diffusa una scossa elettrica, per sottrarsi alla quale ai cani è sufficiente saltare la barriera che li separa dal secondo.
Il risultato?
L’esperimento viene ripetuto nei decenni successivi in diverse varianti, con altri animali e con l’uomo, conducendo a risultati in linea con quelli ottenuti con il primo esperimento:
Cosa possiamo imparare da questo esperimento?
Il pensiero va al funzionamento di un’organizzazione, quando gestita da manager accentratori o cosiddetti leader carismatici, e al caro tributo che essa paga al loro ego: il fatto che essi si dimostrino impermeabili al feedback e che i tentativi di modificare il loro pensiero siano fallimentari porta i collaboratori a ritenere inutile qualsiasi azione non allineata all’indiscutibile opinione del capo.
La conseguenza di tutto ciò è l’impotenza appresa, cioé la rassegnazione verso l’inutilità di ogni tentativo di rendere la situazione migliore; ecco allora le persone mettere il cervello in naftalina e impiegarlo solo quando richiesto, tirando a campare.
L’impatto sui risultati è facilmente immaginabile, specie quando un’organizzazione non funziona con il numero di teste necessario per affrontare la complessità quotidiana: ma di questo siamo troppo spesso allegramente inconsapevoli.
Cosa puoi fare per sottrarti al senso di impotenza e fare il possibile per cambiare il corso degli eventi che ti riguarda?
Ecco tre cose che potranno esserti utili:
Insomma,
Cosa ne pensi?
Ciao Arduino,
certo, tutto vero e giusto, ma purtroppo a volte l’abuso di potere (di rendere impotenti) di alcuni capi pessimisti, mette nel campo troppi paletti o inganni per i quali è veramente difficile uscirne, se sei un dipendente, un impiegato e non hai alcun potere o voce in capitolo.
Secondo te a volte sarebbe meglio sentirsi dire direttamente in faccia “tu non devi pensare, devi solo agire” che sentirsi dire che la nostra idea o pensiero sono molto buoni e utili e verranno considerati e poi scoprire dopo mesi che il tuo pensiero in realtà non è neanche uscito dalla porta dell’ufficio?
Ciao Stefano,
difficile sentirsi dire “tu non devi pensare”. In effetti, per certi capi, molto più produttivo dare disponibilità ad accettare feedback e proposte e poi ignorarle: il risultato, demotivazione e impotenza appresa, è garantito.
Grazie del commento e a presto leggerti.
Arduino
per me la chiave sta nel considerare la situazione indesiderata temporanea. E’ vero, aiuta a perseverare e a tenere duro verso la meta. è una scelta importante, una scelta di cambiamento, una consapevolezza del proprio bisogno.
Provato e certificato!
Condivido @Alessandra.
Benvenuta e… buona permanenza!
A presto leggerti,
Arduino
Ciao Arduino, il tema che affronti è molto importante e, ahimè, molto comune nelle organizzazioni. E’ triste constatare che il potere e l’egocentrismo spesso portano ad avere atteggiamenti volti ad annullare la persona e la sua intelligenza. E quindi ad ignorare il contributo che essa può dare al sistema. Mi viene da dire che forse non esiste una soluzione definitiva al problema, nel senso che capo e collaboratore non se la giocano alla pari ma vige un rapporto regolato da ruoli gerarchici. Penso però anche che ci siano “strategie di sopravvivenza” grazie alle quali il collaboratore che si sente ripetere “Tu non devi pensare, devi solo eseguire!” possa, in qualche modo, alleviare il peso e la pressione di queste situazioni. Per esempio, attraverso un atteggiamento mentale che trasformi l’odio verso il capo in compassione, oppure che contribuisca a cambiare la visione di sé da vittima sacrificale (“ce l’ha proprio con me!”) a vittima del sistema (“non ce l’ha con me personalmente ma per quello che il mio ruolo rappresenta”). Non è detto che questo funzioni ma quello che conta davvero è l’atteggiamento. Ognuno poi può trovare una sua strategia funzionale.