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La risposta è NO!

In italia il gender gap causa sette punti di pil in meno. Possiamo permettercelo?

25 Novembre 2022 | di Francesca Petrella Diversità - Management e Smanagement

Ho il piacere di ospitare un articolo di Francesca Petrella (Communication Manager in Ipsos e D&I Ambassador) su un tema cruciale per lo sviluppo economico e sociale del nostro Paese. A Francesca il mio grazie, con l’auspicio che voglia continuare a scrivere per noi.

Secondo l’ultimo rapporto sulla parità di genere del World Economic Forum (WEF, 2022), ci vorranno nel mondo ben 132 anni per colmare il gender gap.

In questa classifica globale che copre 146 Paesi, l’Italia si posiziona al 63esimo posto e, se restringiamo l’attenzione alla sola componente economica, saliamo al 114esimo. La partecipazione economica emerge come la dimensione più critica per il nostro Paese. Il dato più noto e che più caratterizza l’Italia è il basso tasso di occupazione femminile. Nel 2021 (popolazione 15-64 anni) è stato pari al 49,4% (Istat), un valore quasi stabile nell’ultimo decennio.

In più quelle che lavorano, non sono valorizzate quando i loro colleghi uomini. Infatti, in Italia le donne in posizioni manageriali nelle aziende sono circa il 18% (Rapporto Donne Manageritalia, 2020) del totale. Nelle posizioni manageriali le differenze di genere relative al reddito sono più elevate, pari a circa il 23% (Istat).

A questa situazione di certo non nuova per il nostro Paese, si sono aggiunte le conseguenze sociali ed economiche causate dagli effetti del Covid-19 di cui sono state vittime in particolare le donne (a causa della composizione settoriale dell’occupazione femminile), tanto da far parlare di SHE-cession.

La cosa più allarmante è che questi elementi di forte disuguaglianza generano sette punti di PIL in meno (Istat, 2022). Possiamo permettercelo? Ovviamente

la risposta è no!

L’Italia è a tutti gli effetti il fanalino di coda in Europa per parità di genere. Questi tristi primati fanno sì che il nostro Paese abbia davanti a sé una strada ancora molto lunga per colmare il gender gap occupazionale e salariale.

 

CERTIFICAZIONE DELLA PARITÀ DI GENERE: FORSE FORSE UN PASSO IN AVANTI.

Un importante passo in avanti è senza dubbio la Strategia Nazionale sulla Parità di Genere 2021-2025 promossa dal Ministero per le Pari Opportunità, ispirata alla Gender Equality Strategy 2020-2025 dell’Unione Europea e strettamente correlata alla Missione 5 – Inclusione e Coesione del PNRR, di cui uno dei dispositivi legislativi è la legge 5 novembre 2021 n. 162 sulla parità salariale.

Finanziato con 50 milioni di euro per il 2022, questo intervento normativo cerca di ridurre le differenze di retribuzione tra uomo e donna. La legge sulla parità salariale si muove, infatti, secondo due direttrici:

  • la prima prevede una serie di interventi per contrastare a monte il gap retributivo di genere, introducendo ed esempio il concetto di “discriminazione indiretta”;
  • la seconda prevede provvedimenti volti a favorire la partecipazione delle donne al mercato del lavoro.

Senza ombra dubbio, la novità più importante della legge 162/2021 è l’introduzione della certificazione di parità di genere.

Si tratta di una certificazione volontaria che le aziende più virtuose potranno richiedere, agli organismi a ciò accreditati, per attestare la conformità dell’organizzazione di impresa ai principi di parità tra i generi, in punto di retribuzione e condizioni di carriera.

Il Dpcm n. 152/2022 ha stabilito che i parametri minimi per il conseguimento della certificazione devono essere quelli definiti dalla prassi Uni/PdR 125-2022. Questo standard prevede KPI specifici raggruppati in sei aree principali rispetto alle quali vengono valutate le politiche di parità di genere nelle organizzazioni.

Le aree sono:

  • cultura e strategia;
  • governance;
  • area processi HR;
  • opportunità di crescita ed inclusione delle donne in azienda;
  • area equità remunerativa di genere;
  • tutela della genitorialità e conciliazione vita-lavoro.

La certificazione si ottiene con il raggiungimento di un punteggio minimo pari al 60 per cento ed è previsto un sistema di punteggi semplificato per le piccole e micro-organizzazioni. Come chiarito dal Dpcm, la certificazione può essere rilasciata da parte di organismi di valutazione della conformità accreditati e, al momento, sono già tre gli organismi di certificazione accreditati da Accredia.

La certificazione è un importante strumento perché consente di avviare un percorso virtuoso di cambiamento culturale nella propria organizzazione per raggiungere l’equità di genere e beneficiare di vantaggi concreti, tra cui sgravi fiscali e punteggi premiali in gare di appalto.

Le aziende che abbiano ottenuto la certificazione saranno esonerate dal versamento degli oneri contributivi, per un valore pari all’1% sulla generalità dei lavoratori dipendenti e fino a un massimo di 50.000 euro annui.

Basterà da sola a risolvere il problema? Ovviamente no, perché la radice del problema è culturale.

Come per le tanto bistrattate quote rosa, l’auspicio è che la certificazione in quanto sgravio fiscale (e sappiamo bene quanto siano graditi alle imprese!), possa essere un vero sostegno all’occupazione femminile, senza dimenticare che la riduzione del gap di genere non rappresenta solo una questione di giustizia sociale.

Essa è, a tutti gli effetti, una formidabile leva per lo sviluppo economico e sociale del nostro Paese.

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