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L'aspetto esteriore può diventare discriminante?

Questo divertente articolo, pubblicato in agosto da Panorama Economy, affronta in modo leggero il tema del lavoro nelle imprese e dell’influenza che l’aspetto esteriore ha su di esso. Buona lettura.

Ogni estate si ripropone la questione del look sul posto di lavoro.

Tendenza puritana o temperature che danno alla testa? Domanda intrigante, che ne sottende una ancora più interessante: l’aspetto esteriore può farci perdere opportunità, o addirittura diventare discriminante?

Al quesito vorrei rispondere con alcuni casi concreti.

Notizia di luglio, una 52enne manager di una società immobiliare americana viene licenziata. “Perché ho i capelli grigi”, sostiene lei, aggiungendo che l’azienda aveva cominciato a insistere sul look giovanile quando, nel 2009, si erano trasferiti in un elegante quartiere di Houston.

Perché non portava a casa i risultati”, sostiene l’azienda, ricordando di avere in organico persone anche più anziane. Chi ha ragione? C’è una causa in corso, si vedrà. Certo la manager difficilmente potrà appellarsi, come ha tentato di fare, agli ottimi risultati del 2004 e 2005: sei anni nel business sono un’era geologica e del successo, nella vendita, non c’è memoria.

Dell’estate del 2009 il caso del Trade Union Congress, uno fra i più importanti sindacati britannici, che lanciò la sfida ai tacchi in ufficio: una mozione congressuale per difendere le donne da tacchi a spillo che “causano danni alla salute e umiliano le donne”, fissando a 4 cm il limite del tacco dell’impiegata britannica. Che fine ha fatto la mozione? Non è dato sapere, probabilmente seppellita dalle proteste di donne insorte nel nome del diritto alla parità di altezza (alla quale non poche attribuiscono parte della carriera), della femminilità, del diritto a vestirsi come meglio credono. Beh, fra noi ce lo possiamo dire che la mozione un po’ strumentale lo appariva. Non credete?

Veniamo ora a quelli come me, i consulenti, perennemente costretti in giacca e cravatta. Perché se è vero che nei seriosi ambienti istituzionali, legali o finanziari, l’abito (scuro…) va indossato sempre e comunque, è anche vero che il “rischio da look” si corre laddove l’abbigliamento tende a essere informale: nel distretto industriale.

Dopo la prima, la seconda, la terza riunione in cui sei l’unico a rischiare il soffocamento da cravatta quando i gradi fuori sono 30-35 osi e ti adegui: un paio di jeans, una camicia di lino e via. Cosa penserà il cliente? Quale impatto il nuovo look avrà sul tuo business, tenendo conto che “non basta essere bravi ma bisogna apparirlo”? Anche un apprezzamento esplicito difficilmente dissolverà i dubbi.

Insomma, il “rischio da look” esiste e va gestito. Ma non è semplice.

Prima di tutto, la questione dell’aspetto esteriore non si presenta mai da sola: prestazioni professionali, competizione sul posto di lavoro e risultato percepito rappresentano elementi a esso intimamente legati. Insomma, se qualcuno discute del look scavate e troverete dell’altro, di solito più importante, da affrontare.

Esiste poi il problema del caldo, che va affrontato senza stravolgere l’abbigliamento canonico: scollacciamenti e improvvisazioni casual possono rivelarsi dannose. Mettere nel guardaroba abiti abbastanza leggeri da ridurre la sofferenza estiva può rivelarsi saggio.

Terzo e ultimo, ricordate che prudenza consiglia sempre di adeguare aspetto e abbigliamento a quello in uso nell’ambiente di lavoro che frequentate, anche quando potreste farne a meno. Questo per evitare ciò che è accaduto a un tale che, passato in ufficio in bermuda e ciabatte da mare per recuperare i documenti personali lasciati sulla scrivania, aveva sentito sopraggiungere il titolare dell’impresa con alcuni ospiti e non aveva trovato niente di meglio che nascondersi sotto la scrivania. Uscendone dopo due ore, quando gli uffici erano tornati deserti.

E quando sua moglie, persa la pazienza, al mare aveva deciso di andarci da sola.

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