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Si può convincere il capo ad accettare l'errore (di lui...)?

4 Dicembre 2013 | di Arduino Mancini Lodi, Cazziatoni, Feedback

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Come avranno certamente i lettori assidui di questo blog, considero la resistenza dei capi ad accettare un feedback uno dei fattori che maggiormente limita la crescita e la competitività delle imprese (trascuro la politica, per ora, una cosa per volta…).

Esagero? No, non proprio. E se vuoi una prova convincente circa quanto affermo rileggi per favore l’articolo sulla mitigazione del feedback fornito al capo; sì, proprio quello degli incidenti aerei.

Prova ora a pensare agli effetti che la mitigazione del feedback può avere su un’organizzazione, nel senso più generale del termine: la resistenza o l’incapacità di un capo di rendersi conto del fatto che sta commettendo un errore o a dare un nuovo indirizzo alla sua azione può avere, e purtroppo spesso ha, effetti devastanti.

La domanda da 1 milione di euro è: è possibile contribuire a formare una classe dirigente capace di accettare il feedback, anche dal basso, valorizzandolo come un elemento decisivo nella propria crescita professionale e nel raggiungimento degli obiettivi fissati?

Credo che a prevalere sia lo scetticismo anche fra chi, come me, vorrebbe tanto sostenere il contrario: se non altro per ragioni di vantaggio personale…

Ma quella che sto per raccontarti è una vicenda che ha seguito molto da vicino e che ha contribuito in modo decisivo alla formazione di una mia ferma convinzione: formare dei capi all’accettazione del feedback, anche quando diretto alla loro persona o alle loro azioni, si può.

Non ci credi? Leggi la storia; poi, se vuoi, discutiamone.

Come al solito non potrai riconoscere né le persone né l’azienda, ragione per la quale ti converrà concentrati sulla vicenda.

Ludovico è un professionista che lavora da una ventina d’anni come consulente nell’ambito delle risorse umane.

Alcuni anni fa egli era stato ingaggiato da un giovane direttore del personale, che chiameremo Giovanni, per progettare la cosiddetta “gestione integrata delle risorse umane”, l’insieme di attività, processi e strumenti indispensabile per garantire all’impresa la disponibilità di competenze vitali per la propria competitività sul mercato (vedi la figura).

Giovanni era stato da poco nominato direttore ed era perfettamente consapevole che l’azienda per la quale lavorava aveva una gestione del personale improntata alla discrezionalità dei capi e alla capacità del singolo di trovarsi al posto giusto nel momento giusto. Inoltre, tutte le volte che si veniva a creare una posizione interessante si faceva ricorso a personale esterno: insomma, una gestione estremamente costosa che potremmo definire ndo cojo cojo.

L’idea di Giovanni era quella di progettare un sistema di gestione tagliato su misura, che prevedesse l’analisi del fabbisogno di competenze, la definizione e classificazione dei ruoli, la definizione di obiettivi, la valutazione almeno annuale delle prestazioni, un sistema di benchmarking retributivo che regolasse i salari: il tutto in un contesto orientato a creare le condizioni affinché le opportunità professionali fossero prioritariamente offerte a personale dipendente, cercando all’esterno le competenze necessarie solo quando indispensabile.

Ludovico accettò con entusiasmo la proposta: non aveva mai avuto in precedenza un incarico simile ma aveva le idee piuttosto chiare su come impostare il lavoro.

Dopo circa sei mesi di lavoro insieme Giovanni e Ludovico erano arrivati alla definizione degli strumenti necessari alla gestione e, soprattutto, avevano progettato il modello per la valutazione delle prestazioni: ora si trattava “soltanto” di creare le condizioni affinché l’organizzazione lo usasse con disinvoltura, inserendolo compiutamente nei processi aziendali.

A questo proposito, Giovanni decise di coinvolgere in una prima fase i manager di livello intermedio (un centinaio di persone in tutto), secondo lui in grado di generare il cambiamento culturale desiderato, e solo successivamente il top management; questi ultimi osservavano quanto accadeva con distaccato scetticismo.

Giovanni chiese a Ludovico di progettare un corso di formazione, con lo scopo di aiutare i capi ad affrontare con successo il colloquio di valutazione delle prestazioni e comunque di sostenere il lavoro di tutti i giorni attraverso la gestione sistematica del feedback verso i collaboratori.

La prima edizione del corso, quella di test, fu un successo: le persone erano entusiaste e avevano mostrato grande interesse verso l’apprendimento di tecniche di somministrazione del feedback che non sentivano di padroneggiare adeguatamente: insomma, imparare a usare in modo sistematico e senza troppi errori la lode e il cazziatone li stimolava moltissimo.

Fu questo risultato che spinse Ludovico a proporre a Giovanni qualcosa di poco usuale.

Ludovico era da sempre convinto che per aiutare le persone a fare un salto di qualità nella gestione sarebbe stato necessario convincerle della necessità non solo di apprendere le tecniche di somministrazione di un feedback ma anche di stimolare il feedback da colleghi e collaboratori, sia in merito al proprio operato sia in merito alle scelte operate (ovviamente nel rispetto delle responsabilità di ciascuno), aumentando in questo modo la probabilità di riconoscere gli errori, imparare e riorientare coerentemente l’azione.

Che cosa sarebbe successo se egli, durante il corso, avesse presentato il feedback non solo come strumento per migliorare le prestazioni dei collaboratori e fare meglio il mestiere del capo ma anche come opportunità di crescita professionale? Come avrebbero reagito i partecipanti di fronte alla possibilità di un cambiamento di prospettiva, che avrebbe potuto significare il sentirsi messi in discussione?

Perché, diciamocelo francamente, una cosa è fare il capo che può liberamente cazziare e lodare e altra è accettare che un collaboratore sappia di poter esprimere il proprio parere mettendo in discussione il comportamento del capo o una sua opinione: in fondo un capo è un capo, e se viene messo in discussione che capo è?

Ludovico propose a Giovanni di inserire nel corso di formazione il cambiamento di prospettiva: il feedback fu presentato come strumento essenziale per migliorare le prestazioni di tutta l’organizzazione, uno strumento del quale il capo non avrebbe potuto fare a meno, anche e soprattutto nel caso in cui fosse stato rivolto verso il suo operato.

Giovanni cercò di capire i rischi dell’iniziativa volle valutare il rischio e pose la condizione che non venisse meno lo scopo iniziale: dopo 24 ore di riflessione, fiducioso nella competenza di Ludovico, diede il via libera.

Al termine dei corsi di formazione programmati i risultati furono sorprendenti:

  • in aula il tema aveva suscitato grande interesse e animato dibattito;
  • circa il 40% delle persone erano rimaste piuttosto tiepide e sostanzialmente disinteressate al cambiamento di prospettiva;
  • le rimanenti avevano invece mostrato curiosità e disponibilità ad affrontare il proprio ruolo in modo sostanzialmente diverso;
  • nei giorni successivi a ciascuna sessione di formazione, circa il 20% dei partecipanti aveva contattato Ludovico per dare la propria disponibilità a un processo inverso rispetto a quello previsto dal corso: desideravano cioè essere loro stessi valutati dei propri collaboratori. L’unica richiesta era che il tutto avvenisse secondo un processo strutturato.

Giovanni era molto contento del risultato ottenuto e andò avanti nel progetto ripromettendosi di ampliarlo in una seconda fase, sperimentando il feedback dal basso.

Tuttavia, quando si trattò di implementare in modo sistematico il processo di valutazione delle prestazioni il top management cominciò a mostrare evidenti perplessità: a Giovanni apparve evidente che uno degli ostacoli era rappresentato dal fatto che non avevano alcun desiderio di essere valutati, dall’amministratore delegato o da chicchessia.

Egli capì che difficilmente sarebbe riuscito a vincere le resistenze e decise di accettare una delle offerte che periodicamente gli finivano sul tavolo, andando a lavorare per un’impresa in grado di offrirgli esperienze professionali stimolanti.

Ciò che Giovanni aveva imparato in quegli anni erano soprattutto due cose:

  • che bisogna sempre domandarsi se i tempi necessari al cambiamento desiderato sono compatibili con le esigenze dell’organizzazione, perché in alcuni casi si rischia di non ottenere risultati;
  • che formare i capi alla cultura del feedback si può, soprattutto se questo avviene nei momenti iniziali della carriera manageriale. A questo egli si sarebbe dedicato negli anni successivi.

Come commenti questa storia?

 

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